Se vedi un colombaccio da solo sul sentiero, proprio come quello che ho incontrato io nei pressi dell’Eremo, puoi essere sicuro che il/la compagno/a apparirà molto presto. Questo perché il colombaccio è molto più “monogamo” di noi umani e una volta che ha scelto il o la compagno/a, è per sempre. Noi somigliamo di più agli scimpanzé che sono piuttosto disinvolti in questo: monogami solo in pubblico. A proposito, la caldaia della mia cella è ‘monogama’, nel senso che si risveglia dal ‘letargo’ solo quando sente spirare il vento di Tramontana, allora si scuote tutta e comincia a viaggiare che è una bellezza, fumando e consumando legna. Comunque giri il vento, da altra direzione, che sia Grecale, Austro, Scirocco o Libeccio, non se ne cura proprio, ma quando “il signorino” si presenta da Nord per lei è irresistibile e, tutta emozionata, si mette in tiro per farsi notare.

Qui all’Eremo, non ci si può mai illudere che la primavera sia arrivata, prima era marzo il mese pazzerello, adesso anche aprile e maggio non scherzano. La notte di Pasqua c’è stato un crollo delle temperature di oltre 10°; per cui, se il giorno stesso eravamo a 18°, la notte ci siamo ritrovati a 3-5°. Allora per la Veglia mi sono imbacuccato per bene e ho pensato che sarebbe stata ‘contenta’ la mia stufa. La veglia di Pasqua è sempre emozionante, anche se un po’ lunga e tanti ospiti vengono a trascorrerla con noi monaci eremiti, perfino le persone con la salute malandata tipo quelle che tossiscono a mitraglietta per tutta la Messa, ma soprattutto alla Consacrazione! Perdonatemi la malignità, ma la loro tosse è strana e capricciosa, infatti, a un certo punto scompare misteriosamente e non si presenta per delle mezzore sane. Che Dio perdoni loro e le guarisca per bene e perdoni anche me.

Oggi – siccome è Tempo di Pasqua – ho deciso di farvi un gran regalo e quindi vi racconterò una bellissima novella. Ovvio che non l’abbia scritta io, bensì è tratta da un bellissimo libro di Emma Perodi, “Le novelle della nonna”, che se lo comprate, fate un’ottima cosa perché vi spiega il Casentino, ma anche un po’ l’Italia rurale che poi, tranne le grandi città come Roma e Napoli (le due città più belle del mondo!) era l’Italia della fine dell’800: tutta l’Italia era contadina e artigiana e si stava una meraviglia! Emma Perodi era un’insegnante prestata alla letteratura e – a onta di quanto dicono – il Casentino lo conosceva eccome. Protagonista del suo libro è la famiglia Marcucci, una famiglia contadina dove nonna Regina raccontava le novelle; una famiglia, come si diceva in senso dispregiativo “patriarcale”, dove però…comandavano le donne! Una famiglia-tipo che rappresentava tutte le famiglie italiane di quell’epoca. A Napoli cantano così: “Tiemp bell e na vota, tiemp bell addò state?!”. Non c’è bisogno che traduco perché si capisce. E ascoltandomi, capirete anche perché ho scelto proprio questa novella: “La pastorella di Pian del Prete”.
C’era una volta in Casentino una santa donna eremita che curava con le erbe: questa però è la fine della storia e non l’inizio. Allora, incomincerò dal principio.
Due Casati illustri, rivali e nemici, abitavano in Casentino tanti secoli orsono, l’uno capeggiato dal Conte di Poppiano e l’altro dal Conte di Romena. Non era inimicizia di vecchia data, bensì scaturita – come spesso avveniva in Casentino e non solo – da una disputa sui confini dei feudi. Non era inimicizia antica, tutt’altro, infatti il figlio del Conte di Poppiano, Corso e la figlia di quello di Romena, Selvaggia erano cresciuti assieme e avevano addirittura condiviso la medesima balia. Quando l’odio fra i conti divampò, i due giovani furono separati, ma più s’ostinavano i genitori a detestarsi, tanto più cresceva in Corso e Selvaggia un sentimento purissimo come l’acqua del torrente Archiano e forte come la roccia del Falterona. Essi decisero di fuggire insieme e sposarsi subito in segreto.

Trascorsero i mesi, ma il Poppiano, padre di Corso non si rassegnò e fece ricercare il figlio, il quale si era rifugiato presso una lontana zia, insieme con la moglie Selvaggia e una splendida bimba che era nata nel frattempo. Quattro sgherri, sguinzagliati dal Poppiano, li scoprirono e, teso un agguato, ferirono per isbaglio Corso che, accortosi del tentato rapimento, difendeva a spada tratta moglie e figlioletta. Solo dopo che Corso fu stramazzato a terra e dato per morto, Selvaggia e la bambina furono condotte al cospetto del Conte. Questi non ebbe nessuna pietà per entrambi e la donna fu rinchiusa in una segreta e la bimba fu strappata alla madre e derelitta su Pian del Prete, in una notte di bufera. Caso volle che un Monaco dell’Eremo di Camaldoli si trovasse a passare proprio di là dopo poco e, raccolto il fagottino candido, s’avvide subito che si trattava di un lattante, placidamente addormentato. Né all’eremo, né al monastero potevano entrare esseri umani di qualunque età di sesso femminile, ma fra Buono, questo era il nome che gli era stato imposto dal Priore, giunto al Monastero di Camaldoli, chiese udienza al Priore Generale che lo accolse volentieri. Non appena il sant’uomo seppe dell’accaduto e vide che si trattava di una splendida bimba dal volto rubizzo e sorridente, la fece subito battezzare con il nome di Buona e l’affidò al padre forestale affinché la nutrisse col latte di un’asina. Manco a dirlo fra Ilario, il forestale, non volle disfarsi di Buona, dandola in adozione a una famiglia del contado, come gli aveva raccomandato il Padre Generale, ma piuttosto le creò un piccolo rifugio, ristrutturandolo alla men peggio, con l’aiuto dell’altro monaco Buono, e ogni giorno le portava da mangiare e bere. Solo le lasciò come guardia un bel cagnone maremmano-abruzzese chiamato Lupo. In men che non si dica la bimba crebbe sana affettuosa e ilare. Fra Buono s’incaricò d’insegnarle a leggere, scrivere e far di conto e le narrava la Sacra Scrittura con grande delizia della piccola.
Quando fu grandicella, il Priore Generale, che aveva finto di non saper nulla, ma era perfettamente informato che la bimba era rimasta affidata ai suoi monaci, volle che le fosse dato un piccolo gregge di capre cosicché lavorasse come tutti i monaci. L’umile capanna, alloggio di Buona era tenuta da lei sempre linda e profumata. La giovinetta non s’ammalava mai, nonostante la dieta magra e povera; se cantava, come accadeva spesso, gli uccellini accorrevano a stormi dalla foresta e si posavano intorno e davanti alla casetta che era un rigoglio di piante e fiori, perfino in inverno. Gli angeli vegliavano sul sonno di Buona. Ben presto in Casentino si diffuse la novella di questa santa giovine la quale si era fatta voler bene da tutti per la sua abilità di curare con le piante che lei stessa coltivava o raccoglieva nella foresta.
Erano trascorsi 15 anni dall’infame gesto del Conte e i genitori: Selvaggia, la madre di Buona e il padre Corso, sopravvissuto all’attentato, ma lontano e sperduto alla ricerca disperata della sua famigliola, piangevano ormai la figlia come morta. La crudeltà del Poppiano si era leggermente ammansita e Selvaggia, pur sotto stretta sorveglianza, era stata liberata di prigione e si occupava dell’antico maniero. Poi il Conte si era ammalato gravemente e Selvaggia, nonostante si trattasse del suo aguzzino e carceriere, lo vegliò e se ne prese cura.
La fama di guaritrice di Buona giunse ovunque in Casentino. Così consigliarono la santa guaritrice al Conte, gliela condussero e, quando lui l’ebbe di fronte, ravvisati nel volto della giovinetta gli occhi ardenti che erano stati di suo figlio Corso, Poppiano prese a interrogarla e alla fine, certo che fosse la nipotina che aveva abbandonato nella bufera, le confessò tutti i propri misfatti. Buona chiese immediatamente che la madre venisse liberata e il suo comando fu eseguito all’istante: la madre e la figlia, infine ricongiunte, rimasero a vivere al castello che ben presto ottennero in eredità per la morte del Conte.
Trascorse ancora qualche tempo, ma infine giunse al castello un pellegrino cencioso che proveniva dalla Terrasanta. Selvaggia già solo sentendone la voce, lanciò un grido: era il suo Corso, che era stato catturato dai pirati e venduto come schiavo; ma infine si era liberato ed era ritornato a cercare la moglie e la figlia. La famigliola, finalmente ritrovatasi, visse lunghi anni in pace e felicità.
Quando Buona perse i genitori, vendette tutti i suoi beni e si ritirò in una casetta in montagna, laddove era stata trovata dai buoni Monaci Camaldolesi e rimase lì, menando vita eremitica come i suoi salvatori, dopo aver donato tutto il suo patrimonio ai poveri.
Ora, per non tirare per le lunghe, vi abbraccio e vi saluto tutte e tutti e spero che mi leggerete ancora fra qualche giorno sempre qui, sul BLOG dell’Antica Farmacia: ho intenzione di presentarvi i prodotti da usare in primavera.
Pace in Ucraina!
Firmato: Un monaco dell’Eremo di Camaldoli